Libri, Ricordi

Per non dimenticare

di Pierina Gallina

Più che un libro è un diario che Bruno Fabretti, classe 1923, residente a Nimis, ha scritto "Per non dimenticare” ciò che ha vissuto in gioventù. È il suo diario, scritto durante le notti del suo primo lavoro dopo il rimpatrio, come guardia giurata alla 5° O.R.A. (Officina Militare Div. Julia-Basiliano). È la documentazione precisa e arricchita da disegno originali di un deportato nei lager nazisti di Dachau, Neuengamme e Buchenwald. 

Soltanto dopo oltre cinquant’anni Bruno ha tolto la polvere a quel diario. Prima lo aveva sepolto nel silenzio più totale. Egli non voleva parlare degli orrori che aveva visto, patito, sofferto perché i fatti erano inenarrabili, terrificanti. Vissuti in prima persona, scolpiti nella memoria come quel numero sul braccio, che ancora resiste. G2588. Ha avuto bisogno di mezzo secolo di silenzio per prendere il coraggio di raccontare. E lo ha fatto in televisione, a Rai 2 da Magalli, da Maurizio Costanzo, da Massimo Giletti. Va ancora nelle scuole a dire, a documentare come sia avvenuto realmente lo sterminio nazista. Si commuove sempre, pur con grande sobrietà e compostezza, nel rinverdire esperienze che aveva tenuto per sé, preferendo confidarle a un diario custodito gelosamente. Ci ha pensato molto prima di pubblicarlo, per timore che i giovani dicessero che i sopravvissuti raccontano storie “come noi bambini ridevamo quando il nonno ci parlava della Grande guerra”. 

Ma quale era la vita, se così si può ancora chiamare, nei lager, per Fabretti e tanti suoi compaesani allora poco più che ventenni? “Non si capiva niente. Si era come robot. Il mio compito era forse “privilegiato” rispetto agli altri. Ero addetto ai forni crematori. Avevo così mezzo litro di brodaglia in più. Dovevo prendere i cadaveri, caricarli su un carrello speciale, metterli dentro, aspettare che si cuocessero, tirarne fuori la cenere e portarla all’esterno”. Un particolare drammatico nel dramma “Tra i corpi un giorno ho riconosciuto un certo Comelli del mio paese”. ancora orrore, fame e cannibalismo. “La notte, alcuni recuperavano i cadaveri che venivano portati nei block e, aiutandosi con pezzi di lamette ritagliate dai barattoli, ne mangiavano alcuni brandelli. Io non sono mai potuto arrivare a questo ma cercavo le bucce di patate tra le latrine”. E poi, nel 1945, la liberazione. I prigionieri erano abbandonati a se stessi in un campo circondato da filo elettrificato. Fabretti è riuscito a fuggire assieme a un gruppo di russi e a uno jugoslavo. Pesava appena 38 chili. Il suo bagaglio era una giovinezza rubata e un brandello di vita. Bagaglio ricco, da “fortunati” rispetto alle migliaia di persone che non ce l’avevano fatta e che erano diventati cumuli di cenere senza identità. Tornato a Nimis, Bruno ha trovato solo distruzione. Nemmeno la sua casa esisteva più né la sua famiglia né la madre, per fortuna poi ritrovata, sola e spaesata a Feletto Umberto. “Una povera donna, con i capelli racchiusi a forma di crocchia sulla testa, un gran grembiule consunto e un paio di ciabatte ai piedi”. Dopo averla ritrovata Fabretti ringraziò Gesù per quella grazia tanto grande. E poi i giorni sono andati avanti. Bruno si è fatto una propria famiglia, ha avuto figli ma nemmeno a loro raccontava mai nulla dello strazio subìto in gioventù. Poi, dopo oltre 50 anni, eccolo sentire il dovere di far sapere la verità sulla tirannide nazifascista dalla quale la civiltà umana ha rischiato di uscire distrutta. 

Oggi, Bruno Fabretti invoca la pace e raccomanda di non odiare ma ricordare e imparare. Lo dice e lo scrive, da giornalista quale è “Questo diario è un documento che lascio ai miei figli, affinché essi sappiano la terribile esistenza passata da loro padre nella sua gioventù. Per conservare date e posti, riferimenti più o meno ricordati, ma ugualmente validi per un domani, quando la mia mente non potrà certo più elencare tutto a causa degli anni, se ancora in vita”. Il libro vuole rimanere un testamento spirituale, non un documento pubblicitario, ma una memoria che illustra un’epoca da cui trarre le debite risultanze. Un omaggio a undici milioni di giovani che oggi non hanno nemmeno una tomba, ma solo ampi prati di torba dove sono finite le loro ceneri. 


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Ultimo aggiornamento: 23/07/2025 14:41